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Il Corriere Mercantile Il Secolo XIX 1-11- 09
"L'urlo di munch" a cura di Benito Poggio
 
Depliant della mostra presso il Museo Sant'Agostino2015/16

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La Repubblica 12-12-2015

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Il Secolo XIX 11-12-2015

Benito Poggio



Visione, disamina e analisi critica
A proposito della mostra di Gianni Carrea:
“L’urlo per Munch” (e per la gente che sa vedere)
a cura di Benito Poggio


Sabato 24 ottobre 2009, in Piazza Scuole Pie, alla Galleria d’Arte “Il Punto”, diretta da Tilde Cignolini, è stata inaugurata la mostra (che si protrarrà fino a mercoledì 11 novembre) dell’artista Gianni Carrea (a me già noto da svariati anni), nativo di Serravalle Scrivia ma attivo a Genova, viaggiatore instancabile, “alla Bruce Chatwin per intederci, che visitato e soggiornato nel Continente africano un numero spropositato di volte: pensate, ben 87! Entrare nelle linde sale della galleria “Il Punto” e percepire immediatamente che l’artista è profondamente affetto (lo dico in senso positivo, come se parlassi di Hemingway e d’altri suoi pari) dal “mal d’Africa” è tutt’uno, circondato, come l’osservatore viene a trovarsida animali, pennellati e descritti in enormi miniature (l’ossimoro è voluto). Il fatto che siano realizzati in bianco-e-nero con aderenza minuziosa e quasi maniacale e in perfetta aderenza con la reale essenza delle belve esposte, fa si che i vari pannelli presentati risultino immersi in un insolito iperrealismo: insolito perché, a mio modo di vedere, dotato d’animo, vivo e parlante. Ergo l’accezione o, se si vuole, il marchio di “iperrealismo vivente”, perché espressivo ed animato, relazionato alle opere di grandi dimensioni dell’artista, indica segnatamente che le fiere, nella loro fierezza (scusate il voluto bisticcio), non solo ci osservano, ma ci parlano della “loro storia” (compreso l’incontro con l’artista stesso, cioè con chi li ha così raffigurati), ci comunicano “un qualcosa “ (il loro dramma) sulla loro, oggi, non facile esistenza. E, per concludere, aggiungo che l’iperrealismo carreano (mi sia consentito di “aggettivare” il nome dell’artista e del suo peculiare sentire faunistico africano), non avendo nulla a che fare con la fredda istantanea fotografica, desta e risveglia in ogni osservatore, si, stupore e straniamento, ma, come ci si aspetterebbe di fronte a colossi di imponente misura e di gigantesche proporzioni, non causa né provoca affatto terrore o angoscia, al contrario, una sorta di irresistibile attrazione. Par quasi, a dire il vero, di trovarsi immersi, o quasi fagocitati, nel medesimo clima di serena e pacata armonia universale, quella stessa che deve aver caratterizzato il momento iniziale della creazione allorchè Dio-creatore, come recita lla Bibbia: “plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati…e Dio vide che era cosa buona”. Infatti, in questa rassegna delle ultime opere dell’artista – come fu certamente all’inizio dei tempi per Adamo ed Eva e come nel mito greco per Orfeo - ci si trova non paurosamente assediati né spaventevolmente accerchiati, ma serenamente attorniati da leopardi e tigri, leoni e rinoceronti, non occhieggianti nella loro aggressività e violenza o pronti all’ultimo balzo per l’attacco estremo alla preda che non ha scampo, semmai da leopardi e tigri, leoni e rinoceronti vivi e animati, ma non ammansiti, nella loro imponente maestosità, nella loro vera costituzione selvaggia di naturale forza e di naturale vigore. Gli occhi sono incavati e quasi affossati, mentre le fauci, anche se talvolta dall’artista intenzionalmente appena tracciate, risaltano spalancate in un urlo che sa di “naturale ruggito” o meglio che appare come connaturato e congenito nelle belve rappresentate dall’artista con particolare efficacia narrativa: fauci spalancate quasi in un urlo/ruggito non aspro e sgradevole, pur se non fonicamente del tutto melodioso. Si tratta, nel caso presente, di creature magicamente pensate, inserite e incluse dall’artista Carrea in un equatoriale environment africano che si percepisce con immediatezza alle loro spalle, pur nella assenza cromatica di immense savane, vaste praterie o estesi territori assolati. Di conseguenza, come le fauci spalancate non incutono terrore ma appaiono quasi naturale gesto animalesco, così l’urlo non risuona spaventoso né rivela la medesima drammaticità lacerante e accusatoria dell’”urlo di Munch”, che fornisce titolo e logo della mostra: lo si percepisce, piuttosto, come una sorta di non sgradevole, anche se non eufonico, ruggente urlo liberatorio diretto agli uomini ecologicamente attivi e sensibili, indirizzato proprio alla “gente che sa vedere”, secondo l’illuminante dicitura che appare nel sottotitolo.

continua...